Vegani alla festa del paese
Stanno male, si capisce subito che sono stanchi e preoccupati, cercano di darsi un tono rilassato da passeggio ma non riescono a nascondere i pensieri che li assillano e affaticano, sono insofferenti, trattano male i bambini che corrono avanti e indietro e gridano e chiedono cos’è. Hanno la mente da qualche altra parte, sono qui e guardano ma non vedono: lo dicono i loro occhi mentre ci scorrono davanti, una letta veloce senza fermarsi o volgendo lo sguardo con il collo storto mentre il loro passo li distoglie e li porta via, verso un altro sguardo cui rivolgere la stessa attenzione obbligata, distratta e superficiale.
Terza domenica di ottobre, festa del paese, nella piazza del municipio è allestito il ristorante sotto la grande tenda gialla, uguale all’anno scorso e all’anno prima e a sempre, tradizione oblige, pare che si dica turismo enogastronomico con obbligo di liscio e sbandieratori, classico inossidabile senza sorprese, cucina piemontese con le consuete specialità locali, roba genuina chilometro zero piatti di plastica prezzi modici nello splendido scenario gratuitamente dispiegato delle colline astigiane, dicono sia per questo che la gente viene, ma oggi c’è questa dispettosa foschia che non vuole alzarsi, minaccia di pioggia, chissà se il tempo tiene, massì è presto vedrai che si aggiusta, facciamo un giro, non son nemmeno le dieci e già si spande l’odore promettente del ricco sanguinoso menù degli onnivori, sale lentamente nell’aria grigia e arriva quassù fra le bancarelle disposte lungo la panoramica alta, un portobello in sedicesimo di brocante usato trovarobe fine serie resti di soffitte e cantine anche la polvere è autentica, pentole e caffettiere, cornici in madreperla, carte navali, zuppiere, collanine, sveglie ferme da decenni, mestoli tirolesi, babbucce orientali, l’arte del fare a maglia, volanti in radica e guanti da millemiglia, vediamo se si alza una lira pardon un euro.
Siamo qui anche noi, anche quest’anno. Si tratta di uscire di casa e fare qualche metro con un tavolino, due sedie e l’armanentario dell’informazione vegana, e già siamo in postazione, il grande manifesto e i pieghevoli, una deliziosa torta al cioccolato e della focaccia a far da esche, e i nostri sorrisi, quelli che riusciamo ad atteggiare mentre salutiamo anche oggi coloro che tutti i giorni salutiamo, ma oggi è un po’ più difficile e innaturale e sfida la cortesia consueta, oggi siamo quelli strani, ah già quei due che non mangiano animali, e loro sono quelli che non sanno farne a meno.
Ci viene incontro Mario gridando “i miei benefattori!”, l’anno scorso aveva il banco vicino a noi, ha letto le nostre cose, abbiamo parlato, è diventato vegetariano, aveva sempre mal di stomaco e gli è sparito in pochi giorni, sta bene e mangia saporito, chi l’avrebbe mai detto. Lo racconta a tutti sorridendo. Pubblicità progresso.
Marzia del centro spirituale di pace qui vicino ha un banchetto simile al nostro, ci scambiamo affettuosi complimenti per il coraggio e l’abnegazione, e per la serenità con cui affrontiamo l’indifferenza dei passanti.
La campana chiama a messa, salgono la stradina acconciando l’espressione del viso all’occorrenza, lassù i doni del Signore offerti plenis manibus, e intanto parlano sottovoce del figlio in mobilità, dei lavori da fare alla casa ci vogliono troppi soldi forse meglio venderla, della ripa franata sono in causa nessuno si prende la colpa chissà se tiene con le piogge di novembre. Scendono che è già quasi mezzodì, i volti più rilassati, certo la grazia divina, ma anche la strada che ora è in discesa, e là in fondo dopo l’arco “già la mensa è preparata: voi suonate, amici cari, già che spendo i miei danari, io mi voglio divertir…”
Un gruppo di amici si ferma, uno di loro legge, si vede che è contrario ma finge curiosità e accetta un pieghevole, fa la faccia storta ma nemmeno obietta o polemizza, rifiuta la torta affermando di pregustare la carne cruda che lo aspetta, andiamo che c’è già coda.
Sarà così fino al tardo pomeriggio, tra false gentilezze, contegni, sorrisi tirati, rifiuti, emozioni coartate, silenzi di ignoranza o di riprovazione, incredulità e disagio: loro sono i normali, ciò li rassicura e spazza via ogni dubbio sull’argomento, del resto ne hanno già tanti, come non capirli. Dunque nessuno ci osteggia, tantomeno ci insulta; nemmeno ci parlano, semplicemente passano perché siamo sul percorso del loro struscio digestivo: uno solo, di fronte alle nostre immagini di violenza sugli animali e di bambini dai grandi occhi tristi il ventre enfiato e le braccine cadaveriche ci rimprovera per avergli fatto venire quelli che lui chiama scrupoli di coscienza, un attimo dopo aver vantato gli agnolotti d’oca e gli spiedini di manzo tenerissimi di cui s’è rimpinzato e di cui ora si massaggia la pancia piena. E’ così, siamo così, questa è l’Italia, il bel paese dove ci si commuove per le mamme orse e i cuccioli di delfino ma poi li si uccide, fra colpevoli superficialità, leggi e iniquità miserevoli, analfabetismo affettivo, noia, sensazionalismo e arroganze di onnipotenza. Ma non è solo l’Italia, questo è l’uomo, l’uomo in uno dei momenti più oscuri e disperati, patetici e cruciali della sua parabola storica.
Sbaracchiamo e torniamo a casa, son pochi metri ma ogni passo ha il peso della delusione. Eppure quando rimettiamo a posto il materiale scopriamo che ne è andato via non poco, e magari stasera qualcuno se lo troverà in tasca o in borsa, e gli darà un’occhiata.
Un’altra volta, da qualche altra parte.